18 Aprile 2024

a cura di  Elia Fiorillo

 

Nel numero di Conquiste del lavoro del 12/13 dicembre del 2009, nell’articolo: “Abuso sui più deboli e risposte non emotive”, affrontavo – tra l’altro – la vicenda Cucchi e sostenevo che “Il credito, la stima da parte dell’opinione pubblica, si mantiene soprattutto quando si ha il coraggio di tirare fuori le cose dolorose, che non sono andate per il verso giusto”.

Mi riferivo a quegli apparati dello Stato, implicati nella triste vicenda, che  non s’impegnavano a trovare una verità per loro scomoda. A me sembra che lo spirito corporativo, di classe, ha prevalso sul buon senso. “Un balordo”, drogato, nella società e’ solo un numero zero, immaginarsi in carcere. E l’errore e’ proprio questo. Perché il carcere, a differenza della società cosiddetta civile, non può – e non deve – tenere in considerazione lo stato sociale dell’individuo, se e’ uno scienziato o un politico potente o, per converso, un povero cristo senza “arte ne’ parte”. Difronte alla legge, ed al carcere – ma anche in una corsia d’ospedale -,  tutti, ma proprio tutti, devono essere uguali.  Se al posto di Stefano Cucchi ci fosse stato un altro individuo dalle caratteristiche sociali diverse,  sarebbe finita com’è finita?

Al di la’ dell’ultima sentenza che proscioglie gli imputati – ed è giusto che sia così, se non c’erano  prove incontrovertibili -, resta l’interrogativo: “Ma Cucchi poteva essere salvato?”. Le foto del cadavere sul letto autoptico mostrano un viso tumefatto. L’autopsia ha accertato lesioni gravi per tutto il corpo. La difesa degli imputati sostiene che è stato proprio lui a procurarsi quelle lesioni. Dando per buona questa versione resta l’interrogativo: ” Ma quando il drogato-balordo si procurava quelle ferite,  battendo la faccia contro il muro e rompendosi le costole con presumibili cadute varie,  o altro, chi doveva controllarlo, dov’era?”.

In questa dolorosa vicenda i punti interrogativi restano tanti. Uno, in particolare, ci deve far riflettere: “Ma è proprio sensata ed utile alla categoria dei medici, degli infermieri, dei poliziotti, la difesa ad oltranza – senza se e senza ma – di singoli individui, senza porsi alcun problema di provare a cercare la verità dei fatti – al di là di quella processuale -, quando c’è un contrasto evidente tra il buon senso e una certa interpretazione degli avvenimenti?” “Difendere uno per difendere tutti” , come si diceva una vota, potrebbe essere modificato in “accusare uno per difendere tutti” . In questa storia la vera questione e’ la credibilità’ delle istituzioni democratiche che la morte di un giovane arrestato per possesso di droga  ha messo in discussione.

Dopo le polemiche sulla sentenza assolutoria, probabilmente anche per le pressioni dei media, il procuratore capo della Procura di Roma, Giuseppe  Pignatone, annuncia nuove indagini sulla vicenda.  “Non si può accettare la morte di chi e’ affidato allo Stato” sostiene giustamente. Il pensiero va a quei balordi-drogati che non hanno  la fortuna di avere l’opinione pubblica a favore, ne’ una famiglia che sostiene le loro ragioni.

Un’altra nota stonata in questa brutta storia e’ l’atteggiamento negativo di alcuni accusati, e non solo, nei riguardi della famiglia Cucchi. Il ragionamento che viene fatto e’ su per giù questo: “invece di occuparsene da morto potevano seguirlo da vivo, tirandolo fuori dalla droga”. È questa una cattiveria gratuita, che non tiene conto dello strazio di una famiglia che si trova a combattere con un congiunto drogato. E prova in tutti i modi ad aiutarlo. Com’e’ superficiale sostenere che una buona educazione familiare e’ tutto e, quindi, la droga non ha cittadinanza in soggetti così formati. Purtroppo non è sempre così. Prima di sparare giudizi trancianti bisognerebbe conoscere nel dettaglio certe storie di droga, di disperazione, ma anche di solidarietà ed impegno familiare.

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