29 Marzo 2024

A cura di Elia Fiorillo

Mezzogiorno di fuoco? In fatto di polemiche elettorali è proprio così. Beppe Grillo prova a pescare voti tra gli scontenti del Sud “dove c’è maggiore disperazione e povertà” e Matteo Renzi e Silvio Berlusconi lo rimproverano proprio per questo. C’è bisogno, sostiene il presidente del Consiglio,  di “far capire al Paese che può riprendere a sperare, che può riuscire a farcela”. Ma per fare ciò  bisogna partire proprio dal Sud.

“L’Italia sarebbe stata ciò che il Mezzogiorno sarebbe diventato” sosteneva Giustino Fortunato, storico e grande meridionalista. E frase più profetica non è stata mai scritta sul Mezzogiorno. Non è un caso se tanti anni dopo la citazione del Fortunato, nel 1989, la Conferenza episcopale italiana (CEI) ripete la certezza profetica che “il Paese non crescerà se non insieme”.

Basta straniarsi dalle querelle opportunistiche e fuorvianti per capire che certe debolezze italiane hanno radici profonde nel Sud del Paese. Ma quelle fragilità opportunamente convertite possono dare uno sviluppo propulsivo all’Italia. Da punti di debolezza trasformarsi in trampolini di lancio per l’occupazione, per la crescita civile, per il benessere del Paese. Le risorse da sfruttare ci sono tutte: bellezze naturali, cultura, risorse umane. Ma per fare il grande salto c’è  bisogno di credere nell’unità del Paese, nella diversità delle situazioni economiche e sociali, delle culture e sub-culture che caratterizzano l’Italia. Non è che il Nord non abbia tutti i torti a considerare l’altro pezzo d’Italia un problema. La soluzione però ipotizzata dalla Lega di lasciar perdere i “terroni” al loro destino, o quella delle macro-regioni, è anacronistica e superficiale. Per andare avanti la ricetta non può che essere l’Unità. E certe competenze date alle Regioni dalla modifica del titolo V della Costituzione non hanno fatto altro che peggiorare una situazione di per sé già complessa. Ben venga allora la controriforma annunciata dal presidente Renzi, appunto la riscrittura del titolo V.

A leggere i dati dei rapporti annuali Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) sull’economia del Sud si resta esterrefatti. Sia per la loro drammaticità, ma soprattutto perché passano inevitabilmente sotto silenzio. Un oblio inspiegabile, come se quei dati non fossero indici di pericolosità assoluta per tutti, Nord compreso. La crisi gravissima che ha colpito l’economia mondiale ha fatto sentire i suoi effetti devastanti in quelle realtà di per sé più deboli. La forbice tra le due Italie si è ancor più allargata.

Nel linguaggio immaginifico dello studioso meridionalista degli anni ottanta il Mezzogiorno era “segmentato, a pelle di leopardo, non più omogeneo nel sottosviluppo”. Insomma, passi in avanti erano stati fatti. Proprio quando ci sarebbe stato più bisogno  del sostegno dello Stato per avvicinare il Sud al resto del Paese sopraggiunse la teoria dell’autopropulsività, la “volontà del fare” era diventato l’antidoto a tutti i mali del Sud. Il darsi da fare è sempre un’ottima cosa. Ma non basta in certe situazioni. Quando hai una malattia grave la voglia di guarire è importante ma servono le medicine eppoi le terapie riabilitative. A lucide analisi dei meridionalisti dell’epoca, Manlio Rossi Doria, Pasquale Saraceno, Francesco Compagna, è subentrata un’apatia colpevole delle classi dirigenti meridionali e non solo. Queste hanno provato ad affrontare l’enorme problematica a pezzi, secondo interessi territoriali, senza rendersi conto che l’intreccio delle problematiche superava l’ambito campanilistico e regionalistico e doveva essere affrontato per forza di cose a livello meridionale.

Dal 2007 al 2013 il Mezzogiorno ha beneficiato di finanziamenti che si sono aggirati intorno ai cento miliardi di euro, tra risorse europee e fondo per le aree sottoutilizzate. Poco è cambiato però proprio perché la frammentazione degli interventi, senza un progetto di sviluppo complessivo, non ha consentito al Sud quel salto in avanti indispensabile per lo sviluppo di tutto il Paese.  C’è bisogno, insomma, di un disegno nazionale di politiche pubbliche generali, tendenti al superamento del divario, ma soprattutto per far uscire il Paese dal declino in cui sembra stia inesorabilmente scivolando.  Ma per fare tutto ciò c’è la necessità  che i partiti selezionino con grande attenzione le classi dirigenti meridionali.  Queste vanno sostenute da  un vero “blocco sociale” formato dai movimenti, dalla Chiesa con la sua autorità morale, dalle parti sociali. Qualche tempo fa la Svimez ipotizzò una Conferenza delle Regioni meridionali, in stretta relazione con la Presidenza del Consiglio (iniziativa  riproposta ultimamente),  proprio per programmare interventi strategici per il rilancio del Sud. Passata la campagna elettorale le forze che oggi si battono contro i populismi dovrebbero coerentemente farsi promotrici  della conferenza ipotizzata dalla Svimez.

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