29 Marzo 2024

La provincia soffocante. Una casa angusta, senza finestre. E una cappa che aleggia su di essa, asfissiante, come un genitore troppo protettivo. Come una campana di vetro sotto la quale si vorrebbe costringere i figli a non crescere mai (o a diventare esattamente come ci piacerebbe). Questa la sensazione suggerita ad un primo sguardo alla scena dello spettacolo scritto e diretto da Davide Sacco, “Piccolo e squallido carillon metropolitano”, che ha replicato il 9 e 10 dicembre, sul palcoscenico del Nuovo Teatro Sancarluccio, dopo il debutto in forma ridotta al festival di corti teatrali diretto da Gianmarco Cesario, “La Corte della Formica”. Il palco appare incorniciato da finti stucchi bianchi, che nelle squallide case di periferia sono semplice cartongesso: il kitsch è il segno di questo interno/casa/astuccio di una famiglia disgregata dentro e fuori. La scenografia di Luigi Sacco non è semplice cornice del racconto scenico, ma il congegno, la macchina teatrale, su cui si muove la poesia prima e oltre lo squallore della vicenda rappresentata. Finti fiori bianchi disseminati sulla scena sono il vessillo cencioso di mal riuscita ricerca di normalità: a ben guardare somigliano ai gigli, i fiori dei morti. Infatti scopriamo subito che la casa è segnata da lutti importanti: la morte di entrambi i genitori lascia orfani tre ragazzi. Due sono rimasti lì, in quella casa tra le ombre di morti e le immagini di santi. I tre sopravvivono ognuno a modo proprio. Ognuno nella propria cappa di vita, sotto la propria sfoglia di vetro, fragile ampolla che delimita la propria “distanza d’offesa” dal mondo. Ognuno chiuso nel proprio piccolo e squallido carillon metropolitano, che se capovolto, al posto della neve e dei coriandoli, vedrebbe venir giù fiori bianchi e santini. Quei santini a cui una madre-cappa aveva affidato le sorti dei suoi tre figli: Mimma, Mimì ed Ettore, ciascuno particolare a modo proprio, come lo sono sempre i figli per le loro madri. Nel lavoro di Sacco la particolarità si amplifica divenendo problematicità emblematica. La penna del drammaturgo riesce qui a scorticare la vita andando a fondo di quel dolore che non si comunica, perché sembra trafiggere unicamente le carni di chi lo prova. Mimma è un travestito sulla quarantina, tratteggiata con grazia e buona misura dall’efebica figura di Orazio Cerino, che riesce a non cedere ai clichè o al banale riepilogo dei più famosi travestiti della storia del teatro, riesce a non essere Jennifer a cui pure il suo ruolo occhieggia. È questa figura il perno principale della “casa”. È lei, Mimma, a raccogliere l’eredità emotiva di una madre malata che però aveva continuato ad occuparsi dei suoi figli, un malsano angelo del focolare, figura topica di una famiglia che muta nella sua struttura classica, pur restando ancorata ai ruoli canonici, a quell’eredità che di generazione in generazione ci viene inculcata come struttura straussiana. Mimma porta avanti la famiglia lavorando, in un supermercato di giorno, e prostituendosi di notte. Subisce le angherie e lo scherno pur di esibire orgogliosamente la propria trans-sessualità. Ha anche un compagno, Andrea, non un uomo speciale, ma l’uomo che ama e con cui condivide sogni di “normalità”. È lei ad occuparsi di Mimì (interpretata da Eva Sabelli), la sorellina trentenne che arriva in scena abbigliata come una bimba d’altri tempi: vestitino giallo a campana con pizzi e tulle, un fiocco tra i capelli e tra le mani una palla di cristallo con all’interno un pesciolino rosso morto. Lei, però, dice che dorme. È il suo compagno di giochi. Non vuole rinunciare a lui come ha dovuto fare con i suoi genitori. Sembra ritardata, Mimì, ma probabilmente non lo è, ha solo rinunciato a crescere. È rimasta bambina, come avrebbe voluto sua madre, a giocare sotto la sua campana di vetro con un pesciolino rosso morto da chissà quanto tempo, il carrillon che regalò “mamma sua” che però non suona più e qualche giocattolo sgangherato, relitto di un’infanzia oltrepassata da molto. Ma soprattutto Mimì vorrebbe giocare con i suoi due fratelli: “fratello ricchione” e “fratello sconosciuto”, come li chiama lei. Fratello sconosciuto è Ettore (interpretato da Giovanni Merano), l’uomo di casa, che però da quella casa è scappato via da tempo. Lavora al nord, in una di quelle fabbriche immerse nel grigio e nel nulla. Lì conduce una vita laccata di normalità, lontano dalla sua famiglia sembra aver persino dimenticato il dolore che l’ha portato via. Un dolore che si rinnova però sulla soglia del suo ritorno, nell’incontro con le sorelle. In quella casa Ettore ci va solo per adempiere alle ultime volontà di sua madre: portare via Mimì e curarla. Ma quel ritorno lo mette faccia al muro con un dolore ricacciato indietro. E non un muro qualunque, ma le pareti di quella casa dove la sua tragedia ha macerato nella sua solitudine interiore. Quando si ritrovano tutte tre, il carillon si ricompone: il gioco teatrale delle parti fa emergere una verità sottaciuta. Allora arriva la cura per tutti e tre: la parola chiarificatrice e lenitrice di vecchi dolori. Il vecchio giocattolo torna a funzionare e per un’attimo, a luci spente, sembra di sentirne anche la musica, come armonia che solo l’arte è in grado di ripristinare.

Milena Cozzolino

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