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“Stati generali dell’Autore”: al centro del dibattito il riassetto del sistema radiotelevisivo pubblico

 

La Rai va riformata, ma senza passare dalla padella alla brace

a cura di Elia Fiorillo
Alla fine il tema dominante della terza edizione degli “Stati generali dell’Autore”, promossi a Roma dalla Federazione unitaria degli scrittori italiani, è stato il servizio pubblico, ovvero quello che dovrebbe essere la Rai. Certo, si è parlato dei nuovi linguaggi della scrittura, dell’appello di Umberto Eco contro il matrimonio tra Mondadori e Rcs libri, di contrattazione e competenze professionali, ma tutto poi è scivolato sull’ipotesi della riforma della televisione pubblica. E non poteva essere diversamente, non solamente per l’importanza cruciale della tematica in rapporto alla cultura in generale, ma anche per l’attualità politica, visto l’annuncio del proposito riformatore del presidente del Consiglio.

Lo slogan che da sempre viene riproposto sulla televisione pubblica è: “fuori i partiti dalla Rai”. E il motivo si capisce. Basta ricordare come nascono i telegiornali – Tg1, Tg2 e Tg3 -,  nonché il manuale Cencelli della spartizione dei posti di comando in viale Mazzini. Cambia la forza politica dei partiti al governo? Mutano gli incarichi direzionali, alla faccia spesso della professionalità. Il bello è che quando certi “professionisti” salgono al potere per opera e virtù del “partito – o editore – di riferimento”, tutto va bene. Il brutto, le nefandezze, a loro avviso, si compiono quando un altro raccomandato li scalza.  Storie di ordinaria televisione pubblica.
La missione del servizio pubblico radiotelevisivo dovrebbe essere quella “dell’informare, dell’educare, dell’intrattenere”. Ma c’è modo e modo di realizzare queste tre azioni. Se ti capita di stare a casa per qualche giorno, bloccato da una banale influenza, e per passare il tempo fai zapping tra le varie reti pubbliche e private, troppe differenze non le noti. Il grande Axel Springer, pioniere del giornalismo popolare tedesco, riteneva che per vendere i giornali erano necessarie le tre “s”: “sesso, sangue, soldi”. E sembra proprio che anche la televisione, pubblica e privata, abbia adottato il consiglio di Springer.

Con i suoi ottantotto anni, Gianni Bisiach, che di televisione s’intende, ricorda che ai tempi di Benito Mussolini, quando c’era l’Eiar, l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche, i partiti in quella struttura non c’erano. C’era il governo dell’epoca, meglio c’era il duce Benito Mussolini. Ogni riferimento a Matteo Renzi pare voluto. Bisiach poi se la prende con il prof. Monti che nominò ai vertici dell’azienda Rai “due impiegati di banca che non capiscono niente di televisione”. Sarà pure così, ma a volte chi sta fuori dal “giro” riesce meglio a comprendere certe dinamiche consociative-affaristiche e a provare a modificarle.

Roberto Zaccaria, ex presidente Rai, ricorda che sono state depositate in Parlamento nell’ultima settimana una decina di progetti di legge di riforma della Rai. Per valutarli, a suo avviso, c’è bisogno di una griglia di riflessione che tenga conto: 1) della missione e della funzione del servizio pubblico; 2) dei finanziamenti, dei controlli e dei conflitti d’interesse; 3) della forma di governo, cioè “di chi sceglie” e di “chi decide”. Per quanto concerne la mission aziendale, per Zaccaria, questa è indicata nell’art. 3, comma 2, della Costituzione: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Per quanto riguarda poi “i finanziamenti”, e “la forma di governo”, l’ex presidente Rai ritiene che l’attuale proprietà delle azioni, pesantemente condizionante,  debba passare dal ministero dell’Economia e dalla Siae a una fondazione: “diaframma tra il potere politico e la società operativa”. Chi va a gestire la Rai deve essere esperto, perché “chi è competente è più libero di altri nella gestione”. Le designazioni andrebbero  fatte dopo audizioni pubbliche.
Certe ingerenze partitiche e governative è difficile evitarle, però limitarle con qualche accorgimento si può. Come pure lo strumento del “sorteggio” potrebbe essere utilizzato per scansare “padrinaggi” vari. Dopo la selezione dei candidati alle varie cariche di vertice – attraverso valutazioni di curricula e audizioni – tra i primi tre classificati ci sarebbe il sorteggio. Una vera rivoluzione democratica. Spesso però chi predica la democrazia non la pratica.

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