Dimenticati del mondo, dal mondo dimenticati. Jamais Vu al TRAM di Napoli
3 min readA cura di Benedetta Bartolini – Dopo tre anni dalla sua anteprima al Napoli teatro festival, questo weekend è tornato in scena, sul palco del TRAM, Jamais vu. Si tratta di una drammaturgia originale del giovane Eduardo Di Pietro che cura anche la regia dello spettacolo, mettendolo in scena insieme a Giulia Esposito, Vincenzo Liguori, Gennaro Monforte e Laura Pagliara, con i costumi di Federica Del Gaudio.
La vicenda che lega i protagonisti nasce da un “incidente di percorso” che ci introduce da subito in un’atmosfera comica e paradossale. I quattro sventurati personaggi hanno deciso, per ragioni e necessità diverse, di unirsi per rapinare la Banca Nazionale. Ma qualcosa va storto, inalano gas nervino e vengono colpiti da un’amnesia parziale. Si ritrovano così chiusi in un covo, mentre fuori comincia la caccia ai ladri.
Il nodo narrativo si scioglie attraverso due piani principali, il primo è quello dell’oblio, il secondo quello del ricordo. Nella prima parte i protagonisti non ricordano quasi niente l’uno dell’altro, né dove e perché sono rinchiusi in quel posto angusto. Si muovono, sotto l’arco che incornicia la scena, nervosi, a ritmo di battute e cambi di posizione, passandosi la lampadina posta al centro del soffitto. La lampadina prima diventa una torcia, poi un microfono. È il testimone della loro staffetta. Future, il “capobanda”, interviene sulla scena come un burattinaio che, con fare un po’ filosofico, spiega al pubblico cosa accade, per poi ricattare i protagonisti per sapere dov’è il bottino. Il secondo piano narrativo comincia in modo parallelo al primo, con uno dei protagonisti che ci riporta un ricordo legato alla sua infanzia, di cui stavolta riesce a restituirci il finale: “Ricorda che noi siamo solo quello che costruiamo”. Così comincia il disvelamento della vera storia, il ricordo del passato di ciascuno dei protagonisti.
I quattro rapinatori improvvisati sono simboli dell’emarginazione sociale. C’è chi ha rilevato l’azienda di famiglia, che però è fallita; chi fa la ricercatrice sottopagata, mentre la “figlia di” è professoressa; e chi conduce una vita di stenti, con un figlio gravemente malato. Sono condannati a una vita senza futuro e cercano di riappropriarsene con un ultimo tentativo disperato. L’isolamento li costringe, però, al ricordo dei torti subiti e delle azioni criminose commesse, capovolgendo l’ordine delle cose. Quando il ricordo è dolore, l’amnesia diventa l’unica via di salvezza. E così, quella che sembrava la loro lucida coscienza, personificata nella figura di Future, è in realtà il loro cuore che li assilla e li sprona ad andare avanti nelle loro vite compromesse, impedendogli di essere liberi dal passato.
Dal punto di vista drammaturgico Di Pietro impiega in modo funzionale la lingua, dividendo il ruolo dei protagonisti, che parlano con l’accento dialettale perché persone comuni, dal loro “cuore”, che invece “pare il Treccani”. Il testo è attraversato da una vena comica che esalta la paradossalità della storia, lasciando il giusto spazio al tono drammatico che avanza nella seconda parte e che ci trasporta nelle tragedie dei protagonisti. Una nota di merito va a Laura Pagliara che, con una recitazione dai toni forti, suscita compassione nello spettatore, nonostante sia il personaggio con le colpe più gravi. E ci ricorda che, in realtà, non siamo solo quello che costruiamo.