Nessuno aveva pensato di mettere in scena la storia dell’anonimo ragazzo che si libra nudo da un affresco sepolcrale ritrovato a Paestum cinquant’anni fa. Antonio Mocciola ha scelto Graziano Purgante per mettere in scena “Blu abisso”, che del tuffatore restituisce tutta la poesia, estendendola fino alla fuga in mare degli albanesi verso l’Italia e al probabile suicidio del Tirreno del fisico Ettore Majorana. Con le musiche di Vincenzo Vecchione, lo spettacolo ha debuttato proprio a Paestum, nell’ex tabacchificio, e dopo la tappa romana di Cappella Orsini, tornerà proprio nella splendida valle dei Templi, il prossimo 23 febbraio. Proprio come il celebre affresco, anche Graziano Purgante interpreta il tuffatore completamente nudo.
“Blu abisso” è un testo scritto e diretto da Antonio Mocciola, ma che ti vede da solo in scena. E’ la prima volta che affronti un monologo?
Sì, “Blu Abisso” è la prima esperienza per cui ho affrontato un intero spettacolo improntato sul monologo e dove mi vede il solo protagonista dal primo all’ultimo minuto. Ci sono tra le mie esperienze altri spettacoli in cui ho ricoperto il ruolo di protagonista e ho dovuto tenere la scena dall’inizio alla fine, ma il monologo amplifica la sensazione di responsabilità continua, il dovere dell’attenzione massima e della gestione autonoma, ritmica e progredente del calamitare il pubblico su di sé, sull’importanza dell’urgenza ad esprimersi che deve restare sempre alta e attraente per non rendere invece un’esperienza piatta per il pubblico. Con il monologo sei tu e il pubblico, quest’ultimo diventa personaggio di scena, è il destinatario attivo del messaggio che nasce da me attore e risuona espandendosi in TE pubblico continuando ad esistere. È questo a cui punto come attore e ancora di più nel monologo: un confronto diretto di esperienze, e non uno spettacolo a cui assistere. Se le persone sedute davanti a te sono dentro con te e non stanno solo osservando da fuori lo riconosci dagli occhi che si protendono involontariamente dentro i tuoi cercando di slanciarsi insieme verso la risoluzione del bisogno inappagato.
Lo spettacolo affronta, tra gli altri, il tema della solitudine e della manipolazione psicologica. E’ stato difficile entrare in questo “mood”? Tu ti sei mai sentito solo o “usato”?
Discorso articolato. Non è stato difficile ma non bisogna lasciar passare neanche che significa che è stato facile e che quindi sono stato una persona sola e manipolata. Io, come tante persone, ho avuto nella mia esperienza personale dei periodi che avevano il “colore” della solitudine, dell’abbandono o della presa di coscienza di un disarmo della propria persona nei vantaggi di un’altra, insomma, una forma soggettiva di quello che può significare per me solitudine e manipolazione. La Persona che sono nell’addizione delle esperienze vissute è sicuramente un nesso che ha aiutato la mia comprensione emotiva nell’avvicinarmi alle tematiche espresse nel monologo e di conseguenze alle Persone/personaggi che vesto, ma è e resta un colore, un punto di vista esperienziale di quei grandi temi affrontati nel testo. D’altronde è questo che rende unica e differente l’interpretazione e l’espressione viscerale di temi emotivi di ogni singolo attore. E allora come si fa, solo se si vive quella precisa e dettata emozione la si può ritrovare e comunicare? Vede, io credo una cosa: in quanto esseri umani abbiamo un fattore che, seppur a volte risulta essere una dote per alcuni e/o una mancanza per altri, per la scarsa educazione alla sensibilità, ciò unisce i nostri mondi mettendoci in contatto e in connessione potendo vestire i panni dell’altro, è l’empatia. Questo elemento è lo strumento magico che un attore deve avere ed allenare, e non si tratta di tecnica ma si tratta di apertura della persona, di animo, si tratta di vivere e si raccoglie dalla vita. L’empatia dona all’attore la capacità di riuscire a comprendere le sfaccettature psicoemotive passando dalla propria sensibilità e umanità riuscendo così ad imprimere alla propria persona le sensazioni che vanno raccontate. Io ho empatizzato, compreso e ritrovato in me i punti analoghi di partenza da cui poter attingere e su cui poi lavorare per arrivare alla manifestazione di ciò che è l’urgenza dei personaggi. È dare anima a ciò che è scritto.
Dopo il debutto a Paestum (dove tornerà tra qualche settimana al Museo Archeologico, lo spettacolo ti ha visto in scena a Roma, negli intimi spazi di Cappella Orsini, in una versione “naked”. E’ stato difficile recitare per un’ora, da solo e completamente nudo, col pubblico che si trova a un centimetro dal tuo corpo, dalla tua voce?
Non è affatto facile. La difficoltà non sta tanto nello spogliarsi dei vestiti ma nello spogliarsi dalle inibizioni mentali che ingabbiano la sensazione del nudo, su quello ho dovuto lavorare. Nel momento in cui un blocco può compromettere la mia resa scenica, la mia responsabilità e il mio dovere trasmissivo di un messaggio, la consistenza emotiva che prende forma, vado totalmente in bestia. Non posso permettere di sabotarmi e rendere un’interpretazione vuota solo perché qualcosa mi blocca. È mio compito scuotere mente e animo di chi ha deciso di pagare una poltrona per vedere me in scena. Oggi le persone si emozionano poco, si difendono da queste pur se, più di ogni altra cosa, vogliono cibarsi di emozioni ed io non posso venir meno a tutto ciò. Il blocco va visto, riconosciuto, lavorato per evitare che diventi il nemico che può sbucare da dietro l’angolo e rovinare il dovere attoriale. Ho lavorato su di me psicologicamente e come su una bilancia ho trovato i motivi per cui la mia posta in gioco aveva più importanza di un corpo denudato. Quando vinci mentalmente e trovi le tue motivazioni non c’è niente che può intimorirti, che sia uno sguardo, che sia l’essere solo in gabbia tra tanti, che sia la vicinanza di un corpo, che sia il giudizio che è sempre pronto a riempire le nostre teste.
Una domanda che può essere utile agli attori che si stanno approcciando ora al mestiere: Che tipo di lavoro tecnico e psicologico hai fatto per superare l’imbarazzo di un’esperienza del genere? La consiglieri ad attori che magari sono un disagio col proprio corpo? Puoi descriverci la sensazione che hai provato quando nei primi secondi, la prima volta, ti sei trovato, da solo, nudo davanti al pubblico? Percepivi il pubblico o sei riuscito ad astrarti? E’ cambiato il rapporto col tuo corpo dopo questa esperienza che di solito si vive in privato e che nel tuo caso è stata pubblica?
Potrebbe sembrare una contraddizione ciò che sto per dire ma io sono una di quelle persone che ha un continuo rapporto di disagio col proprio corpo, non l’ho mai accettato veramente a pieno. Purtroppo è colpa di quelle voci che in età adolescenziale idolatrano il bello, la perfezione, piacere agli altri prima che piacersi e crescere con queste voci in testa compromette l’autostima, la sicurezza e la visione della vera importanza delle cose. Il blocco di cui parlavo comprende anche questo e include l’imbarazzo e il giudizio. Ho iniziato a guardarmi di più, a rendere prima ai miei occhi il mio corpo qualcosa di meno intimo e segreto, di osservarlo senza giudicarlo. Quando allo specchio alzavo gli occhi e incontravo il mio sguardo mi rendevo conto sempre di un fattore destabilizzante: capivo che ero io. Associavo quel corpo alla mia persona, riconoscevo che apparteneva a me. E lì ho capito che quello che leggevo negli occhi era il mio stesso giudizio, ero io stesso che non permettevo al mio corpo di essere per quello che è. Allora mi sono focalizzato sui miei occhi, sul volto, lì ci ho ritrovato l’espressione dell’anima. Era lì che trapelava il mondo interiore, riuscivo a vedere il mio Io, nulla attorno era così vivo se non negli occhi e mi sono detto: “Quando abbiamo qualcosa di profondo da scrutare e accogliere ci caliamo nello sguardo di chi guardiamo. È quello il punto di contatto intimo, non il corpo nudo”. Avevo trovato l’importanza dell’essere nudo: l’essere guardato negli occhi, nell’anima e non solo per l’apparenza di un corpo. È quella la vera nudità, concedere e dar voce alle proprie fragilità interiori. Quelle erano esattamente le storie che i miei personaggi volevano raccontare, essere fragili nelle mani degli altri. Da lì ho lavorato sull’immedesimazione, sull’empatia, sull’essere altro e non Graziano. Quel corpo non era mio, lo stavo offrendo ai mei personaggi per raccontare qualcosa di più alto e profondo, di più umano che sale dall’anima e si riversa dagli occhi e dalla voce. Il sentirmi altro mi ha aiutato totalmente ad allontanare il terzo occhio dal mio corpo, non c’è stato un attimo in scena in cui l’ho guardato perché non era importante. L’importante era dar voce a quei mondi che portavo dentro che passavano da me per poter esistere fuori. Ricordo il momento in cui, apparso in scena, le persone guardavano il mio corpo nudo, ma io lo sapevo perché lo avevo fatto anche io davanti a quello specchio, ma sapevo anche altro: ho iniziato a parlare dagli occhi e non c’è stato più momento in cui lo sguardo delle persone cercava il corpo ma nient’altro che il mio di sguardo, ciò che inondava da dentro a fuori quegli occhi. Volevano quello. Gli spettatori erano con la persona e non col corpo. Avevo capito di aver vinto. Da queste esperienze performative posso confermare di aver ricavato una molta più forte autostima, un superamento dell’auto-giudizio e una libertà di essere senza prerogative. L’esperienza del nudo in scena è un momento di crescita personale e artistica che credo tutti gli attori prima o poi debbano valutare e poi scegliere con convinzione di voler far per poter accogliere e riconoscere limiti e possibilità che forse non si è abituati a valutare.
Checché se ne dica, uno spettacolo di nudo integrale (di cui Antonio Mocciola è uno dei capostipiti, ottenendo numerosi riconoscimenti) non lascia mai indifferenti: prima di approcciarti a questo tipo di allestimento, hai avuto perplessità? Da pubblico hai visto mai esperimenti del genere, e avresti mai pensato di esserne un giorno protagonista?
Mi capitò da più giovane, agli inizi della mia formazione artistica, di assistere ad uno spettacolo con nudo integrale. Ne ricordo il mio disagio ma allo stesso tempo la sicurezza di quegli attori, quella era molto più affascinante. Così come poi ho avuto modo di essere spettatore di uno delle opere di Antonio Mocciola, anni dopo, dove ricordo che appresi che il corpo nudo non è altro che un “costume senza ago e cotone”. È l’utilizzo di ogni costume che sostiene il senso d’esistere del costume stesso. Per la mia ambizione artistica ho sempre messo in conto che sarebbe arrivato il momento in cui avrei dovuto mettermi in discussione anche sotto questo aspetto ma non avrei mai immaginato di riuscirlo a fare. Quello che sottolineo sempre è che deve essere una scelta presa a cuor leggero, se dovesse diventare un fattore che compromette l’amore per ciò che si fa nell’arte allora allontanatevi perché il teatro è fatto di mille modalità d’espressione e ognuno deve agire per l’arte laddove si sente di appartenere di più.