2 Maggio 2024

Giovedì 18 dicembre 2014, Teatro Elicantropo di Napoli
In scena la vicenda di un’oppressione familiare e la manifestazione di come la violenza del potere possa annidarsi, prima che altrove, tra le mura domestiche

 

La scelta di un autore come Giovanni Testori nasce dal forte desiderio di dare grande risalto alla parola. Una parola italiana, pura, fortemente letteraria, ma dotata di una forza carnale e sanguigna straordinaria, che assurge a linfa vitale dello spettacolo La Monaca di Monza, in scena da giovedì 18 dicembre 2014 alle ore 21.00 (in replica fino a domenica 21) al Teatro Elicantropo di Napoli.

L’allestimento, presentato da Compagnia (S)Blocco5, vede impegnati in scena e alla regia Yvonne Capece e Walter Cerrotta, coadiuvati dal disegno luci di Anna Merlo e le scene di Lorenzo Giossi.

Il rapporto carnale/sacro, che Testori ha con la “parola”, è stato fondamentale per la messa in scena di questo allestimento, orientando il lavoro sulla sua Monaca di Monza, un personaggio amatissimo a partire da Manzoni, e che riesce, come poche altre figure, a rappresentare il binomio fede/peccato, ribellione/pentimento: punto nodale di tutto il suo corpus letterario.

Il debutto del testo, rappresentato molto raramente, risale al 1967, con la regia di Luchino Visconti e Lilla Brignone nei panni di Marianna de Leyva. Lo spettacolo fu accolto favorevolmente dal pubblico, grazie anche all’autorevolezza della Brignone, ma fu bersaglio di non poche polemiche, quando l’autore stesso, inizialmente, parlò di “tradimento” da parte di Visconti.

Anno 1591, Marianna de Leyva, figlia del conte Martino e di Virginia Maria Marino, divenne monaca assumendo il nome di Suor Virginia Maria. Vent’anni dopo, durante il processo che la vide coinvolta per concorso in omicidio della conversa Caterina Cassina da Meda, dichiarò di essere stata chiusa in monastero dai suoi, contro la propria volontà e di essere stata iniziata agli ordini sacri in modo non conforme alle regole. Fu accusato con lei il conte Gian Paolo Osio, suo amante da quasi dieci anni. Nel 1610 Suor Virginia fu murata viva in una cella larga due metri per tre, con un solo foro nella parete per ricevere cibo e aria. La condanna prevedeva che rimanesse rinchiusa per il resto della vita; ma suor Virginia riuscì a convincere il cardinale Federico Borromeo del suo pentimento e uscì dalla sua prigione tredici anni dopo.

«Dopo l’incontro con Alain Toubas, illustre erede di Testori – spiegano Walter Cerrotta e Yvonne Capece – e che sarà presente alle repliche napoletane, abbiamo avuto modo di operare sul testo, utilizzando nella prima parte anche Manzoni, in modo da renderlo rappresentabile da due attori. Abbiamo deciso di sviluppare un dialogo tra Suor Virginia (la Gertrude manzoniana) e i principali artefici della sua monacazione forzata e del suo calvario, dal carcere familiare a quello monastico fino a quello penale».

I personaggi si muovono in un universo mentale fatto di ricordi e reviviscenze. La scenografia scura, fatta di poche e semplici linee, tenta di restituire un non-luogo, un limbo nel quale volti e parole galleggiano, in cerca di una rivendicazione che dia senso al dolore e agli errori della vita.

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