Vincenzo Coppola è tra gli attori più interessanti della nuova generazione. Esile, espressivo, audace nelle scelte, lo abbiamo incontrato per parlare di uno spettacolo, Adàm, che abbiamo avuto modo di ammirare al Depoche, e di cui è in cantiere un prossimo riallestimento.

“Adam” é un testo scritto a sei mani, ma che ti vede da solo in scena. E’ la prima volta che affronti un monologo?Fatta eccezione di alcuni corti teatrali, sì, Adàm è stata la prima, faticosissima, “prima volta” con un monologo completo, accentuata dal fatto che oltre ad aver contribuito alla scrittura scenica del testo mi sono anche fatto carico della regia; tanta fatica ma che grazie ad un meraviglioso sostegno da tutte le persone che ci hanno dato un aiuto mi ha permesso di giocare, divertirmi e sperimentare.

“Adam” affronta, tra gli altri, il tema della solitudine, anche in chiave ironica. E’ stato difficile entrare in questo “mood”? Tu ti sei mai sentito solo o incompreso?

Adàm affronta il tema della solitudine, dell’incomprensione, del tradimento, dell’ossessione e in ultimo dell’inadeguatezza, tutti temi centrali non solo nella mia vita ma che credo a un certo punto facciano visita a tutti, soprattutto in un momento storico come questo in cui il mondo ci spinge sempre di più all’isolamento e alla separazione; la scelta di un tono leggero, scherzoso, che richiama molto all’infanzia non è solo una scelta strategica ma è anche la necessità di affrontare temi tanto comuni quanto silenti che per essere visti necessitano di un punto di vista leggermente traslato, così da essere messi in luce con ancor più chiarezza.

Hai esordito a Napoli, in un piccolo teatro, il Depoche. E’ stato difficile recitare per un’ora, da solo e completamente nudo, col pubblico che si trova a un centimetro dal tuo corpo, dalla tua voce? Il fatto di essere cresciuto in quel teatro ha reso le cose più semplici o, paradossalmente, più difficili, visto il tipo di allestimento?

L’aver affrontato questo viaggio in un posto che sento di poter chiamare casa ha enormemente alleggerito il carico di lavoro, dalla libertà nell’organizzazione al supporto di chi frequenta il teatro. Il Theatre de Poche è per me forse il punto più importante della mia carriera, sia perché ha messo le fondamenta della mia formazione sia per tutte le persone incontrate che, ancora oggi, fanno parte della cerchia di colleghi e amici con cui ancora collaboro. Tornando alla prima parte della domanda, no, non mi sono sentito a disagio in uno spazio del genere, sia per l’abitudine ad essere su quel palco sia per abitudine generale all’essere in piccoli spazi in cui il respiro del pubblico lo senti letteralmente sulla pelle.

Una domanda che può essere utile agli attori che si stanno approcciando ora al mestiere: Che tipo di lavoro tecnico e psicologico hai fatto per superare l’imbarazzo di un’esperienza del genere? La consiglieri ad attori che magari sono un disagio col proprio corpo? Puoi descriverci la sensazione che hai provato quando nei primi secondi, la prima volta, ti sei trovato, da solo, nudo davanti al pubblico? Percepivi il pubblico o sei riuscito ad astrarti? E’ cambiato il rapporto col tuo corpo dopo questa esperienza che di solito si vive in privato e che nel tuo caso è stata pubblica?

Non c’è bisogno, almeno dal mio punto di vista, di un particolare lavoro psicologico per affrontare questo tipo di lavoro, la nudità è assolutamente naturale e se questo elemento è essenziale e coerente con l’allestimento scenico il corpo e la mente non si sentono dissonanti con lo “stare” in quella situazione. Ad ogni buon conto, serve comunque una buona dose di sicurezza e agio a stare nella propria pelle, capisco attori e attrici che possano sentirsi a disagio con questo tipo di lavoro e a cui consiglierei caldamente di non forzare la mano. C’è un tempo per tutto e se in un determinato momento un artista non si sente a proprio agio va bene lo stesso, l’importante è che in un lavoro complesso come il nostro non si vadano ad aggiungere istanze che potrebbero nuocere sia agli artisti che allo spettacolo. Ad esempio in Adàm, essendo il nudo presente in buona parte dello spettacolo, è fondamentale essere a proprio agio, anche e soprattutto perché se lo è l’attore lo sarà anche il pubblico, che è molto più sensibile e attento al nostro stare di quanto siamo abituati a credere, se siamo tranquilli in quello che facciamo il nudo diventa un abito di scena come un altro.

Checché se ne dica, uno spettacolo di nudo integrale (di cui Antonio Mocciola è uno dei capostipiti, ottenendo numerosi riconoscimenti) non lascia mai indifferenti: prima di approcciarti a questo tipo di allestimento, hai avuto perplessità? Da pubblico hai visto mai esperimenti del genere, e avresti mai pensato di esserne un giorno protagonista?

Uno spettacolo che mi colpì molto che vidi anni fa fu “bestie di scena” di Emma Dante al Bellini di Napoli e mi piacque tantissimo, pensai che un giorno mi sarebbe piaciuto fare un lavoro del genere, non per la nudità che ormai non scandalizza più neanche i tredicenni, ma per il concetto di lavorare sul portare l’attore alla sua forma più elementare, eliminare tutti gli aiuti che si possono avere da scenografie, costumi e luci e portare fuori il vero senso della performance attoriale. E’ importantissimo, dal mio punto di vista, che il nudo a teatro non sia una parafilia voyeuristica, o ancora peggio una trovata commerciale per attirare pubblico, ma che anzi, se fatto bene può addirittura diventare un quid in più alla bellezza di quello che stiamo vedendo, il disagio iniziale è sempre dato da canoni sociali e tabù che ci portiamo dietro, ma se il lavoro è sensato e buono, a un certo punto inizieremo a sentirci a nostro agio, richiamando la primordiale consapevolezza che la nostra pelle è l’unico vestito che non potremo mai togliere.

 

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