28 Aprile 2024

Elemento generatore della tragedia antica era il coro. Dal coro tutto nasceva e al coro tutto tornava. Allora il tragico aveva un senso civile e la cittadinanza assisteva alla rapresentazione per avvertire sensibilmente le contraddizioni proprie della società in cui viveva, per allargare se stessa oltre la singolarità della propria condizione. 

 

La nostra comunità oggi si è allargata su scala mondiale e il disagio tragico delle contraddizioni vissute tra il Nord e il Sud del mondo ci riguarda tutti, come comunità internazionale. Per questo il Macbeth di Bailey, andato in scena al teatro Politeama, nell’ambito dell’iternazionale Napoli Teatro Festival Italia, ha una motivazione che viene da lontano, come i protagonisti (tutti attori-cantanti/rifugiati del Congo) del melodramma pop, di cui l’artista sudafricano ci ha regalato la visione.

Macbeth, o meglio il plot dello scespiriano dramma del potere, è solo il pretesto. Le didascalie introducono alla vicenda: a Goma, una città della Repubblica Demogratica del Congo, furono ritrovati abiti e suppellettili utili all’allestimento del dramma scozzese nella versione d’opera verdiana. Da qui avrebbe origine questo lavoro sullo sfruttamento. Ma la figura di Macbeth non è quella di uno sfruttatore, Macbeth è un potente che anela ad avere sempre più potere e non si ferma, nemmeno di fronte allo scempio. Ecco che allora il dramma divienta unico: quello dello sfruttamento e quello del potere. E Macbeth viene immaginato come un signore della guerra congolese.
Il senso tragico viene però calato nella realtà, o meglio diviene un codice di interpretazione del presente storico col suo tracciato di universale ingiustizia. A rendere ancora più universale la vicenda è la scelta di far riferimento all’opera di Verdi, per cui il dramma noto si fa canto lirico dal libretto di Francesco Maria Piave, diventando un pianto dai toni cupi, a cui fanno da contrappunto ironico le traduzioni moderne in italiano e inglese, che amplificano il senso contemporaneo del testo, donandogli anche uno slancio comico che ci introduce in un profluvio di toni esotici e di anime colorate: ecco che Lady Macbeth appare in scena col suo corpo maestoso che di regale non ha nulla, lava i panni in una bacinella, come una massaia qualunque e riceve dal marito un rapido sms e non una lunga lettera che la allerta sulle prodigiose rivelazioni delle streghe. Da qui si dipana un lungo divertissement che si scandisce tra siparietti cantati e visionarie immagini volte a rappresentare il menage di una coppia kitsch tracimante di ricchezza ostentata, che culminano nel momento successivo all’incoronazione di Macbeth quando la casa viene invasa da buste di griffe dell’alta moda.
Nessun attore ha il physique du rôle tradizionale del personaggio che interpreta: Owen Metsileng (Macbeth), Nobulumko Mngxekeza (Lady Macbeth) e Otto Maidi (Banquo) catturano però l’anima di quelli originari e restituiscono quel soffio vitale che li rende eternamente contemporanei.
Ma l’impianto dell’opera resta fortemente tragico, nel senso antico del termine: si possono osservare addirittura i luoghi geografici della tragedia. C’è uno spazio per il coro, un palcoscenico rialzato, come una sorta di castello che si regge su tegole da baracca, che ricorda la skené, quel castello che era una povera casupola anche nel teatro greco. E poi c’è il teatron, che la pianta del Politeama contribuisce a disegnare. Tragiche sono anche le notizie che vengono proiettate sullo schermo: raccontano di un Macbeth senza scrupoli, pronto a sfruttare la sua terra e persino i bambini, semi di un futuro negato al suo popolo, pur di essere cosparso di soldi, al suono della giustificazione che se non lo farà lui ci sarà sempre qualcun altro disposto a farlo. Così come figure tragiche sono le tre streghe, donne sfruttate, violate dai soldati come spesso accade in certe terre. Donne-streghe, la cui unica colpa è quella d’essere in connessione viva con la terra da cui tutto si genera e quindi depositarie di premonizioni che quella terra esala come miasmi.
Un discorso a parte merita l’orchestra, che suona gli straordinari arrangiamenti di Fabrizio Cassol. Il coro finale, intonato della No Borders Orchestra diretta da Premil Petrovic, interpolato dal suono di stumenti a percussione, e che vede i protagosti ricomporre il coro originario degli attori-rifugiati da cui tutto ha avuto origine, è un grido che unisce nel segno dell’umanità comune. È un grido di disperazione e al contempo di speranza, che solo la musica come voce dell’inesprimibile riesce ad elevare oltre ogni contingenza. In qualunque parte del mondo si viva, risuona: non bisogna essere per forza Macbeth!

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